“Alberto Pellegatta” scriveva Mary Barbara Tolusso in un curioso articolo sui poeti italiani più avvenenti d’oggi “a me ha sempre fatto venire in mente un cobra dal magnetismo irresistibile. Tutt’oggi quando lo vedo lo trovo il più sexy, e ciò si deve all’eleganza. Non lasciatevi abbagliare dalla sua grazia, Pellegatta arriverà alla vostra gola con lo sguardo spietato dei visionari.” Pellegatta è tornato ora nelle librerie con la sua raccolta più ambiziosa, dove una poesia intitolata ‘Cobra’ e dedicata alla Tolusso ricambia la strizzata d’occhio. La poesia, come quasi tutte le sue, tiene fede anche stilisticamente al nomignolo serpentino, guizzando reticente fra immagini enigmatiche e cariche d’indefinibile minaccia. “Non esco di casa da giorni”, ammette morboso l’io che parla, “catalogo / i colpi alle pareti dei vicini”; ma questo recluso vanta su di loro un oscuro dominio: “Se non l’avessi inventato / nero e umido come una tomba, sarebbe solo amore”.
È notevole – ed è forse testimonianza proprio del potere inquietante della sua scrittura – che un personaggio così schivo, alieno da provocazioni e protagonismi, polarizzi ferocemente le opinioni. Dato che i critici di poesia oggi raramente stroncano, preferendo la damnatio del silenzio, rivolgiamoci ai pareri dei lettori su internet: al 5 ottobre 2017, sul sito di IBS L’ombra della salute (la sua precedente silloge, datata 2011) raccoglie nove volte il voto massimo, sette volte il minimo, solo una volta due stellette su cinque; simile, anche se con prevalenza dei voti alti, la situazione su Anobii e GoodReads. Possiamo d’altronde immaginare, data l’esigua consistenza del pubblico della poesia, che chi lascia questi commenti coincida abbastanza spesso con chi in altra sede esercita una critica più o meno professionale – anche se è vero che la prestigiosa collocazione editoriale degli ultimi due volumi consente potenzialmente a Pellegatta di raggiungere un pubblico più ampio.
I detrattori lo accusano in genere di epigonismo, sciatteria, oracolarità. Inane la prima accusa: non siamo di fronte a uno scandaloso, possente sovvertitore della tradizione, ma quasi nessuno lo è (che poi i padri putativi si chiamino Cucchi o De Angelis, Sanguineti o Zanzotto, non fa differenza), e pur inserendosi chiaramente in una tradizione ‘lombarda’ la voce di Pellegatta è distintiva e non ha mancato d’influenzare autori di generazioni anche precedenti alla sua; né mancano a questo milanese cosmopolita influssi dalle letterature non italiane. Un poeta grigio, o sciapo? Di nuovo: un poeta non clamoroso. Pellegatta ha la capacità di usare risorse linguistiche poco appariscenti per colpire in modo calibrato e sottile. Invece di ‘oracolarità’, vedo la capacità di suggestionare con agili pennellate che non ostentano i meccanismi della scrittura e del ragionamento.
Tanto che nel nuovo libro aleggia sì “una consapevolezza dell’essere poeta” – così l’aletta di copertina – “ma senza alcun cedimento di sapore metaletterario”: vale a dire che non ci sono denudamenti, esplicitazioni, riflessioni pseudo-teoretiche sull’atto di scrivere. Fanno capolino invece numerosi riferimenti al testo stesso che il lettore ha in mano, segnalati da deittici prossimali (L’autore qui presente inciampa nel guaio e nel fallimento […] spaventare i piccioni di questa poesia; Anche in questa poesia nasci e sparisci allo stesso tempo; In questa poesia ti allacci le stringhe; L’inverno mite di questa poesia / appiattito in cimiteri; Togliti la giacca per entrare in questa poesia; notare anche il titolo ‘La moltiplicazione dei comignoli, o dove accompagnare il lettore’). Piccoli, stranianti accorgimenti a metà fra istruzioni per l’uso e rotture della quarta parete, strumentali a quell’opera di sottile fascinazione che è la scrittura pellegattesca.
Altrove c’è piuttosto una bizzarra etologia del mondo poetico (altri diventano poesie / pensando di essere poeti; anche la letteratura ha il suo basalto; Indovinelli pericolosi e piante ad alto fusto / crescono intorno ai poeti; da quelle parti l’acqua uccide i poeti romantici; il tasso corre fino a che la ragazza non gli dedica versi d’amore; l’alce la cui poesia sopravvive al massimo tre settimane). Un campionario che espande quanto già si leggeva nella chiusa davvero memorabile dell’Ombra con il “poeta glamour” che “splende / ricoperto da una curiosa glassa verde”, molto rappresentativo dello stile di Pellegatta nel suo bathos grottesco eppure vagamente ieratico. Un tono ironico è indubbio in tutte queste notazioni, e le punte satiriche sull’antropologia più stereotipata della letteratura sono evidenti (i primi movimenti del poemetto per la madre / una decina di liriche piombate; Dopo avere letto la prima poesia / non potrai fare a meno di leggere / anche le insegne dei negozi […] Costringi la luna / a salire sui rami con le scimmie).
Ma allora da che parte sta davvero l’autore nello schieramento della nostra poesia? Non certo alla retroguardia, a mio avviso. In fondo, Pellegatta ha diretto (per Edb) una collana intitolata alla «Poesia di ricerca». È vero però che la sua ricerca si muove in modi molto diversi da quelli dell’area che, denotativamente, è ormai consuetudine indicare con tale etichetta.
Un tipico procedimento sperimentale è ad esempio la variazione sistematica sul tema, la ripetizione spinta all’assurdo, l’insistenza accanita su una formula linguistica o un concetto che giunge a spogliarlo di senso, o ne fa emergere la sinistra comicità. Al contrario Pellegatta non indugia mai su un tema, un’immagine, una parola (casomai ci ritorna – ciò che è ben osservabile in una raccolta ampia e strutturata come questa, dove le riprese interne non mancano), ha fretta di svicolare, ma non col sensuale, vitalistico “scantonare da giovane animale” (L. Carlucci) del suo ‘gemello diverso’ F.M. Tipaldi; piuttosto con un mordi e fuggi da arciere scita, capace di trafiggere anche quando sembra ritirarsi.
Inoltre, le sue non sono figure parafrasabili, che vadano ‘decifrate’ come rebus o come allegorie classiche; il loro valore è simultaneo, sinestetico, metaforico. Valgono per quanto suggeriscono più che per quanto dicono. Né giocano metalinguisticamente – come appunto le avanguardie – sfruttando in maniera calcolata ambiguità, polisemie, paronomasie. Pellegatta lavora come un miniatore alieno, congegnando immagini sorprendenti e accostandole in modo ancor più spiazzante. Poesia né in verbis né in re, ma che nell’intercapedine fra le due vive le sue accensioni di fuoco fatuo.
Questo stile non conosce alcuna intemperanza grammaticale, alcuna distorsione della sintassi o della messa in pagina, ma non perciò è trasparente. Usa frasi brevi e laconiche, di carattere prevalentemente enunciativo (a volte solo nominali), e le accosta per via paratattica, chiuse e come isolate dai punti fermi che spesso frammentano il verso smorzandone la musica: ma se le singole unità sintattiche sono in sé ben formate, i nessi logici e tematici sono volentieri lasciati impliciti, di modo che la coesione del testo appare elusiva e punisce una lettura superficiale. Improntati a un tono di calma distaccata, sibillina, gli enunciati di Pellegatta seducono il lettore e lo confondono. Lasciano sospettare magmatiche profondità di pensiero, anni di rovello formale, da cui appena questi pochi frammenti emergono, precariamente solidificati.
Se la qualità fulminatoria, la ricerca della sentenza ineffabile possono ricordare De Angelis, l’ironia e certo “incedere raffreddato” di Pellegatta lo distinguono dall’urgenza bruciante del serissimo Milo, e soprattutto dagli epigoni che ne mimano malamente l’orfismo. Ma anche sull’ironia occorre intendersi. Ci sono autori la cui modalità ironica o sarcastica è chiara, anche quando agisce su più livelli; la sfida diventa dunque – come su Facebook – contare gl’involucri d’ironia e vedere se sono pari (e allora l’autore sta effettivamente dicendo quel che in modo caricaturale sembra dire) o dispari (e allora no). L’ironia di Pellegatta è pervasiva, senza dubbio, ma più impalpabile, sembra continuamente rifuggire la presa torcendosi su sé stessa come – che altro? – un serpe.
Le iuncturae più memorabili straniano la percezione della realtà dando presenza fisica all’astratto o all’incorporeo: “quel fastidio tra le ghiandole che chiami pensiero”; “una pellicola di significato si stende sulla terra”; “Nel corpo schiacchiato da un buio cantabile // stride, cervicale, l’ossessione”. L’universo mentale è abitato dai “bulbi dei rimorsi”, da “filamentose inquietudini” (nell’Ombra i morti erano “muffe nere nella testa”), da “calamari irragionevoli [che] agitano i loro tentacoli nella sua testa” (sedici pagine dopo, con una delle riprese cui si accennava, “un tetro calamaro muove / i suoi tentacoli nella mia testa, i tuoi concetti”). Viceversa gli enti concreti e inanimati si trasfigurano per esprimere i fenomeni psichici: “osserva quale spavento struttura il paesaggio”; “il lago emette luce nel disinteresse, / una frizione quasi melodica”. Come giustamente osserva Francesco Maria Tipaldi, “la natura non sembra particolarmente amata né odiata dal poeta, è tenuta a distanza come un insetto o un’infezione”. La natura fornisce in compenso animali grotteschi che nei testi sembrano assolvere a funzioni simboliche: “due grossi pesci puzzano in salotto”, “grossi bovini intonano a menadito l’ultima estate felice”, mentre “la nostalgia [è] violenta come un cane senza testa” e “si battono i bisonti nella nebbia”. Tanto che Pellegatta inserisce al centro della raccolta una sezione in prosa, un bestiario che – come da tradizione – parla in realtà di tipi umani, forse d’individui (l’impressione è che varie cose in questa raccolta siano à clef, ma le allusioni, se ci sono, sono sfuggenti e cifrate). In ogni caso, se l’autore cita in un suo verso un capriolo non sta certo praticando una poesia premoderna, ingenuamente legata al mondo naturale: è chiaro come il sole che i suoi animali, presenze incongrue o figure simboliche che attraversano un panorama del tutto urbano, ipercolto e nevrotico, non hanno alcuna reale consistenza di pelo e di odori.
I trapassi istantanei dal concreto all’astratto, le “miniature violente“, gli animali bizzarri, sono alcuni dei tratti che ricordano la poesia dello stesso Tipaldi (la cui fauna è più folta e screanzata). I due condividono una vocazione da ‘neosurrealisti’, come scrissi senza implicare un legame specialmente stretto coi surrealismi storici, né tantomeno una critica: va da sé che in loro – ma come tutto in il surrealismo migliore – la realtà non è evitata, sostituita da un delirio automatico e gratuito, ma è messa in dubbio, smontata e ricostruita per via allucinatoria. Una realtà quasi come la nostra, in cui si può esibire “una pettinatura da ricerca scolastica” e un testo può essere “canticchiato dal finestrino di un treno, con grandi zanne”.
Sono dunque inesistenti le debolezze di questa poesia? Tutt’altro; i detrattori non sono senza ragioni. Non tanto per le rare cadute verticali di tono, fino alla scurrilità (“nuvole scoreggianti”, “sequenze di spettri che volano con i culi aperti / verso un dolcissimo massacro”, cf. già in Ombra “suonano Besame mucho ai turisti / salvo poi farselo succhiare ai giardini”), che rientrano nelle strategie di spiazzamento ironico dell’autore. Sicuramente calcolato è anche il rischio di certi messaggi ‘progressisti’ di tono piattamente didascalico: “non la produzione di beni e servizi ci consegnerà alla storia ma la trasformazione del pianeta in un relitto”; “se il coraggio dei figli è la paura / dei padri e la maggioranza soffoca l’Italia intera”; ma anche la denuncia etimologizzante della persecuzione cattolica degli omosessuali in ‘Finocchio’, resa tragicamente ficcante proprio dalla stringatezza formale, con quel primo distico in tono di beffarda filastrocca, lascia perplessi come testo poetico – ma è vero che in una raccolta di estese proporzioni c’è spazio per infilare senza troppo danno questi ‘biglietti’ ideologici.
Altrove si possono riscontrare abbassamenti di temperatura stilistica forse meno voluti, che dipendono dalla fragilità intrinseca di questo tipo di poesia. Pellegatta è sempre deliziosamente in bilico fra la banalità e l’illuminazione, fra l’insensatezza e la produzione di sovrasenso. E questo proprio perché si gioca tutto sulla forza spiazzante delle sue immagini. È una scrittura che cerca d’allontanarsi dal realismo, dalla colloquialità, ma che al tempo stesso non si affida a un’impalcatura metrica, né a una retorica, a una Kunstsprache, a qualche stilizzazione aprioristica, e accetta quindi di restare scoperta quando la scintilla delle illuminations non attacca.
Qualcosa di simile accade nelle prose Zoologiche: rispetto ai versi (che, nonostante il loro understatement metrico-ritmico, si giovano comunque dell’effetto di sospensione anche solo grafico dell’a capo) viene meno qui il gioco delle pause e degli staccato, e con esso quell’insinuante mistero, la vertigine della concentrazione lirica. È dunque l’unico punto in cui la trama di questa scrittura si fa davvero un po’ troppo esile e discontinua. La vaga parodia surreale del trattato zoologico riesce in qualche stoccata divertente, ma convince meno del resto.
Un’altra strada diversa dal frammentismo di cui è maestro, Pellegatta la tenta nel poemetto che dà il titolo alla raccolta, in cui la sua algida visionarietà si distende (e si stempera) in toni relativamente più empatici e narrativi. L’atmosfera è inizialmente purgatoriale, connotata ancora da immagini di sofferenza e degenza (pastiglie, ospedali, pena, asma, trauma…). Ritornano temi e soluzioni stilistiche delle altre sezioni, ma cambia il montaggio, che anziché lasciar splendere ogni frammento nel suo isolamento li lega in sequenze di respiro più lungo, sempre però su un ritmo staccato, dalle connessioni non lineari. La felicità del titolo è quindi intravista (un’ipotesi, appunto) lungo un percorso obliquo, che sembra passare per un’ironica conoscenza dei propri limiti, e nonostante tutto dalla pratica scrittoria: “la soddisfazione non è una tabellina a memoria”, d’accordo, ma “basta / scrivere piccoli libri per essere in ottima forma”. Piccoli, perché “il discorso deve essere interrotto / per diventare sopportabile”.
L’ultimo terzo del libro ospita invece una generosa selezione dalle due raccolte precedenti, con minime varianti testuali. Così separata, non rifusa ai testi nuovi, l’appendice invita al confronto. L’ombra della salute era un libretto che amai subito, riconoscendogli una strana potenza. Nella nuova opera, anche se la continuità stilistica è innegabile, l’impatto iniziale può risultare diminuito. Per certi versi i singoli testi sono ora ancor più difficili da afferrare: là, pur procedendo comunque per soprassalti visionari, avevano una più visibile unità tematica interna, spesso si poteva intuire ‘di cosa parlassero’ (della dialettica salute/malattia, organico/inorganico, razionale/irrazionale…). Al contempo, la struttura più complessa delle Ipotesi sembra diluire quella forza elegante ma spietata nelle sue stanze più ampie e articolate. Nulla di strano: Pellegatta ha semplicemente alzato la posta, accettato certi rischi, e pretende di più anche dal lettore. Ma l’investimento di nervi sarà ripagato. Nel suo silenzio serpentino, questo poeta ha raggiunto un’importanza e un’autorevolezza che sarebbe stolto negargli.
Alberto Pellegatta, Ipotesi di felicità, Mondadori, Milano 2017, 120pp. 18€